
“Putin per sempre“? Non è una buona notizia per il leader del Cremlino. Il fatto che le elezioni parlamentari russe abbiano segnalato un calo del partito che sostiene il presidente, Russia Unita, sceso sotto la maggioranza assoluta dei consensi impone profonde riflessioni al capo dello Stato.
Il fatto che la conclusione degli scrutini abbia in extremis consentito a Russia Unita di mantenere la “supermaggioranza” che permette le modifiche della Costituzione e che il Partito Comunista, maggiore forza d’opposizione, dal 24-25% dei primi scrutini si sia attestato alla fine a un comunque considerevole 19% ha indorato la pillola a Putin, ma non ha risolto le determinanti strutturali di un voto che, a conti fatti, non vede lo “Zar” tra i vincitori.
La motivazione di una sostanziale sconfitta di Putin alle parlamentari non sta tanto nel risultato delle opposizioni né nelle contestazioni internazionali legate all’esclusione del blogger Alexey Navalny, in ultima istanza ininfluente nella partita, quanto piuttosto nella conferma dell’esistenza di un sentimento di malcontento verso il potere centrale che va manifestandosi in diverse forme.
In primo luogo, l’affluenza è stata poco sotto il 52%, segno della presenza di uno zoccolo duro di indecisi o scontenti che esprime nel rifiuto di partecipare al gioco elettorale il suo disappunto; al contempo, Russia Unita è stata oggetto di attacchi concentrici che hanno visto, per la prima volta da diverso tempo, l’ascesa di una forma di opposizione concreta e attiva. Il Partito Comunista, nostalgico dell’era sovietica ma anche molto radicato nella provincia profonda, si è in particolar modo fatto interprete dell’insoddisfazione di buona parte della periferia contro il centro moscovita. La conquista della maggioranza da parte dei comunisti nella remota Repubblica di Yakuzia e nel krai di Khabarovsk e il crollo locale di Russia Unita mostra un’importante crescita della preoccupazione per la crisi sanitaria, le problematiche economiche, le questioni sociali.
Nella fase in cui mancano ancora tre anni alle elezioni del 2024, la pandemia corre, gli effetti della riforma costituzionale che lo ha reso tecnicamente candidabile fino al 2036 stanno mostrando una sostanziale fragilità dell’apparato politico e soprattutto non si trova un erede all’altezza Putin deve amministrare una fase difficile. La crescita del prezzo degli idrocarburi può aiutare a dare fiato alle casse del Paese nel breve periodo e finanziare alcune misure promesse per ridurre il malcontento e rafforzare il welfare (tra cui si segnalano aiuti per genitori single, sussidi mensili per le future mamme bisognose, pasti caldi gratuiti per gli scolari della scuola primaria, ferie pagate per i genitori che si prendono cura di un figlio malato e un contributo una tantum per famiglie con figli in età scolare) ma il problema del Paese appare strutturale.
Vent’anni fa Putin ha preso in mano un Paese fiaccato, colpito da lotte di potere intestine, dal terribile default del 1998 e dall’assenza di prospettive, piagato dal dilagare dell’alcolismo e della povertà. La leadership centralizzata ha da un lato contribuito a rasserenare gli animi del Paese, dall’altro a consolidare il consenso attorno a un blocco di potere capace di riunire i servizi segreti, i militari, gli esponenti delle autorità locali, gli uomini forti dell’industria energetica e della finanza desiderosi di riciclarsi come boiardi di Stato. Dall’autonomia in campo alimentare all’espansione dell’industria energetica, a lungo i risultati hanno premiato il Cremlino mano a mano che in parallelo l’influenza globale di Mosca cresceva.
Ma nell’ultimo decennio, complice ovviamente la congiuntura mondiale, la rottura dei rapporti con l’Occidente, le sanzioni la Russia ha sperimentato un progressivo rallentamento di tutte le dinamiche politiche ed economiche, fino alla maretta degli ultimi tempi, che in Russia si comincia a chiamare zastoj, “stagnazione”. I russi chiedono più sicurezza sociale dopo aver avuto la sicurezza materiale, chiedono più prospettive di redditi, consumo e welfare, meno disuguaglianze e un rapporto diretto col potere. La riforma delle pensioni del 2018 ha segnato una cesura tra il consenso attribuito a Putin, che resta elevato, e quello di Russia Unita, che ha perso punti negli ultimi anni fino al voto di settimana scorsa.
Putin, nei prossimi anni, si troverà dunque di fronte alla necessità di gestire diverse criticità. E dovrà farlo con vent’anni di potere sulle spalle, una politica che lo pungola da posizioni radicali e conservatrici e senza che un erede reale sia in vista. Manca per ora una strategia per affrancare il Paese dalla dipendenza dagli idrocarburi, per superare con brillantezza la pandemia di Covid-19 e per giocare da attore non satellite la partita economica di avvicinamento alla Cina. Al contempo, la proiezione globale che ha permesso la crescita del prestigio del presidente si trova minacciata dalle crisi mediorientali e dalla necessità di ottenere dividendi sicuri dalla partecipazione alle dinamiche di aree come la Siria, la Libia, il Caucaso.
La nota lieta è rappresentata dal fatto che nuovi settori iniziano a contribuire all’export: dopo le armi, sono le materie prime alimentari e la tecnologia nucleare a contribuire crescentemente come voci in attivo alla bilancia commerciale russa. Tuttavia, a stagnare è soprattutto la piccola e media borghesia urbana, la classe imprenditoriale, i membri delle fasce più istruite e tecniche della popolazione, che non riescono a ottenere benefici sociali ed economici paragonabili a quelli dei colleghi occidentali.
In quest’ottica, potrebbe erodersi la base di consenso su cui poggia la complessa architettura di potere in seno a cui, per mezzo di un sistema di mediazione tra varie anime, Putin primeggia senza essere un dominus assoluto. Dover in futuro gestire un insabbiamento o un declino del Paese rischierebbe di attrarre sul capo del Cremlino le conseguenze politiche della fine di questa mediazione e dei suoi risultati. Il fatto che Putin sia indispensabile al suo stesso sistema creato in vent’anni di governo segnala il rischio di un problematico cortocircuito che la Russia dovrà sanare negli anni a venire.
Andrea Muratore
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