venerdì, 19 Aprile 2024

Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione

Fulvio Conti

La storia, diceva Benedetto Croce, è sempre storia contemporanea. È evidente, infatti, che «solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato».In altre parole, soltanto le suggestioni, gli stimoli che riceviamo dalla contemporaneità ci possono spingere a studiare fenomeni e vicende del passato. Se ciò è vero, e personalmente ritengo che lo sia, le ragioni che mi hanno portato a scrivere questo libro si spiegano facilmente.

È sotto gli occhi di tutti l’alluvionale e incontenibile interesse per Dante Alighieri che caratterizza il nostro tempo. E non mi riferisco tanto all’interesse dei dantisti di professione, dei filologi, degli studiosi di letteratura italiana, che hanno messo il sommo poeta al centro delle loro ricerche oltre duecento anni fa e non l’hanno mai più abbandonato. Quanto all’attenzione quasi morbosa che Dante suscita da più di due secoli nella sfera pubblica intesa nella sua accezione più larga. Di lui hanno preso a scrivere i personaggi più disparati, in suo onore sono stati eretti monumenti, busti, lapidi, cippi, si sono organizzate cerimonie pubbliche.

Una ricerca condotta nel 1998 sulle duecento denominazioni di strade e piazze più ricorrenti negli 8.100 comuni italiani rivela che “Dante Alighieri” figura al quinto posto con 3.793 occorrenze, dietro le irraggiungibili “Roma” (al primo posto, presente in 7.870 località), “Giuseppe Garibaldi” (5.472), “Guglielmo Marconi” (4.842), ma assai vicino a “Giuseppe Mazzini” (3.994) e ben sopra a“Cavour” (3.334), “Giacomo Matteotti” (3.292) e “Giuseppe Verdi” (3.046).Il suo nome e la sua immagine sono stati usati per la pubblicità, la sua vita e i suoi testi sono serviti come fonte d’ispirazione per opere teatrali, cinematografiche, musicali, hanno fornito inesauribile alimento per fumetti, graphicnovels e videogiochi.

Dante è stato evocato per sottolineare momenti cruciali della nostra storia nazionale, dal Risorgimento alla Grande guerra, dal fascismo all’età repubblicana. Ancora oggi a migliaia si ritrovano in piazza in talune occasioni per recitazioni collettive della Divina Commedia, un testo ormai tradotto e conosciuto a livello planetario, citato e utilizzato per gli scopi più diversi. Insomma, il poeta fiorentino si è prestato nel tempo a usi e abusi che nella maggior parte dei casi poco hanno a che fare con l’essenza più autentica della sua opera letteraria.

Nel libro cerco di ricostruire questa peculiare vicenda e provo a interrogarmi sui motivi che l’hanno originata. Anche io infatti, come probabilmente molti di coloro che lo leggeranno, sono stato colpito dall’interesse che continua a circondare il poeta nei più diversi ambiti culturali e sociali. E sono stato indotto, come suggerito da Benedetto Croce, a farne oggetto dei miei studi. Al tempo stesso, però, altri sono stati i motivi che hanno ispirato il mio lavoro. Esso è in certa misura figlio del dibattito storiografico degli ultimi decenni e in particolare trae sollecitazione dai nuovi cantieri di ricerca che si sono aperti con l’avvento dei cultural studies. Ho cominciato a occuparmi del mito e dell’uso pubblico di Dante oltre una dozzina di anni fa, quando mi è sembrato di poter cogliere in questo tema di studio uno strumento per rileggere alcuni snodi e passaggi della storia politica italiana degli ultimi due o tre secoli.

L’analisi del culto di Dante, delle forme attraverso le quali si è manifestato, dei milieux nei quali ha gettato radici più profonde, mi è servita per cercare di delineare non una storia culturale tout court, bensì una storia culturale della politica. La diversa declinazione che il mito del Sommo poeta ha avuto nelle varie fasi della storia italiana dal Settecento ai giorni nostri ci rivela aspetti interessanti di quei distinti momenti. In particolare, ci aiuta a capire quale è stata l’evoluzione del sentimento patriottico in Italia, come esso si è formato a cavallo fra XVIII e XIX secolo, come si è modificato nell’Italia liberale e poi in quella fascista, che cosa ne è rimasto dopo la caduta del regime mussoliniano.

E come è stato possibile che Dante, usato strumentalmente in ognuna di queste fasi come emblema della nazione, sia sopravvissuto a ogni cambio di regime, persino alla «morte della patria» o almeno al rigetto del più tronfio nazionalismo che caratterizzò i primi decenni del periodo repubblicano. Infine, come sia stato capace di emergere quale icona polisemica, trasversale rispetto alle generazioni e agli schieramenti politici, negli anni del disorientamento ideologico seguito al tramonto della cosiddetta prima Repubblica, punto di riferimento incredibilmente attrattivo perfino nell’età di internet e della globalizzazione.

La mia ricerca s’inserisce dunque nel fertile filone degli studi di storia culturale della politica. Le fonti a cui attinge e il procedimento euristico di cui si serve sono quelli messi a fuoco dai cultural studies, e con più precisione da quei contributi che hanno utilizzato risorse letterarie, artistiche, rituali e simboliche per raccontare il processo di nazionalizzazione delle masse. L’assunto centrale di quegli studi era che la nazione non costituiva una realtà storica preesistente rispetto ai movimenti nazionalisti o agli Stati-nazione che si svilupparono tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Si trattava, come sappiamo, di un concetto politico nuovo con il quale s’identificava una collettività accomunata da elementi etnici, storici e culturali e in quanto tale legittimata a rivendicare la sovranità su un determinato territorio che essa (la nazione, appunto) riteneva dovesse appartenerle. In fin dei conti, l’idea di nazione era il frutto di un’invenzione, era qualcosa di inedito e di sconosciuto.

I leader dei movimenti nazionalisti dovettero perciò dotarsi di nuovi strumenti di comunicazione politica capaci di raggiungere l’intera collettività, comprese le masse popolari semianalfabete. Fu così, come ha osservato Alberto Mario Banti, che «quei leader o quegli intellettuali i quali volevano propagare le idealità nazionaliste fecero appello all’emozione, piuttosto che alla ragione; al cuore, piuttosto che al cervello». Mutuarono dalle pratiche religiose l’uso di simboli, liturgie, figure allegoriche che si prestassero a modalità pedagogiche facilmente assimilabili, organizzarono feste e cerimonie pubbliche per rinsaldare il sentimento di appartenenza alla comunità nazionale. E inventarono quella che Mosse ha definito «estetica della politica», cioè affidarono la trasmissione del loro messaggio politico a un insieme di manufatti (monumenti, edifici, bandiere, inni, pitture, stampe, opere teatrali e musicali, ecc.) che fossero capaci di parlare ai sensi delle persone, di suscitare passioni ed emozioni.

Per quanto riguarda l’Italia Dante Alighieri, insieme ad altri simboli della storia e della cultura nazionale, si prestò perfettamente a svolgere questa funzione. A partire dalla sua definitiva consacrazione fra tardo Settecento e primo Ottocento come il più grande poeta che l’Italia avesse mai avuto, egli divenne il simbolo principe dell’identità nazionale e persino qualcosa di più, il poeta profeta, colui che nella Commedia aveva vaticinato la nascita stessa della nazione.Durante l’età romantica e risorgimentale fu oggetto di un culto sempre più radicato ed esteso, che si affermò anche attraverso quelle manifestazioni estetiche a cui si faceva cenno poc’anzi: le statue, le rappresentazioni artistiche, le commemorazioni, i pellegrinaggi politici alla tomba di Ravenna. Un mito e un uso pubblico della sua figura che si diffusero ulteriormente dopo il raggiungimento dell’Unità, a cominciare dalla grande festa nazionale messa in scena a Firenze nel 1865 in occasione del sesto centenario della sua nascita.

Tuttavia, quella che di lui si affermò nel corso dell’Ottocento non fu un’immagine totalmente ecumenica.La narrazione che prevalse nel discorso pubblico fu quella del «ghibellin fuggiasco», cucitagli addosso da Foscolo e fatta propria da generazioni di patrioti di fede democratica e liberale. Il poeta incarnò così, almeno nella maggior parte delle cerimonie pubbliche e delle raffigurazioni artistiche o letterarie, l’emblema dell’Italia che era divenuta una e laica, che aveva raggiunto l’unità e l’indipendenza avendo come ultimo e irriducibile avversario lo Stato della Chiesa. Quella Chiesa di cui l’autore della Commedia aveva fustigato i costumi, invocandouna sua profonda riforma, quasi aprendo la strada a Machiavelli, come avrebbe sentenziatoPiero Gobetti nel 1921.

Di conseguenza, per larga parte del secolo decimonono il mondo cattolico, o almeno le più elevate gerarchie ecclesiastiche con la parziale eccezione di Leone XIII, ebbero una posizione relativamente defilata e marginale nella coltivazione del mito dantesco. Del resto, in ciò risiede forse una delle possibili ragioni per le quali Dante si sia più di altri prestato a un utilizzo così massiccio come simbolo polisemico, come coacervo di riferimenti valoriali che ne hanno fatto un emblema ostentato e rivendicato da gruppi sociali e politici diversi. Con la sua biografia e con la sua opera egli ha incarnato quegli elementi di passionalità e di forte contrapposizione politica che sono una caratteristica di lungo periodo della storia italiana. Dante ha unito, ma al tempo stesso ha diviso: i laici dai cattolici (riedizione moderna della lotta fra guelfi e ghibellini), i repubblicani dai monarchici, i socialisti internazionalisti dai nazionalisti imbevuti di retorica patriottica. In ogni caso, mai ha lasciato indifferenti. È stato capace di parlare a tutti, e in alcuni difficili tornanti della vita della nazione è riuscito a ricomporre sotto il suo magistero etico e ideale le mille fazioni in cui è diviso da sempre il Paese.

[…] Il fascismo ebbe gioco facile nell’ascrivere il poeta fiorentino fra i massimi simboli identitari della nazione e del regime stesso. Fin dal 1921 con la marcia su Ravenna degli squadristi guidati da Italo Balbo e Dino Grandi, in occasione delle celebrazioni del settecentesimo anniversario della morte, il movimento mussoliniano dimostrò inequivocabilmente di voler mettere le proprie mani su Dante e su tutto ciò che egli incarnava. E non è privo di significato che nell’aprile 1945, quando la Repubblica di Salò era prossima al crollo, Alessandro Pavolini, uno dei gerarchi rimasti più fedeli al duce, abbia addirittura coltivato l’idea folle di dissotterrare le ossa di Dante per portarle nel «Ridotto alpino repubblicano» della Valtellina e farne il nume tutelare dell’estremo sacrificio delle camicie nere. Mussolini non ebbe bisogno durante il Ventennio di forzare la mano per enfatizzare il mito dantesco: ciò che aveva ereditato dall’Italia liberale, in termini di ben codificate ritualità e liturgie politiche, era più che sufficiente. Il fascismo accentuò semmai la connotazione cattolica del poeta per eleggerlo a emblema principe della svolta conciliatorista del 1929 e utilizzò le acquisizioni di alcuni antropologi, dopo la ricognizione condotta sui suoi resti mortali nel 1921, per esaltarne l’appartenenza alla «stirpe mediterranea».

Con la nascita della Repubblica e con il netto rifiuto della retorica nazionalista che la caratterizzò anche il mito dantesco, così come si era venuto affermando dall’età romantica in avanti, subì un inevitabile declino. Fin dall’immediato dopoguerra si determinò però la riscoperta e la definitiva valorizzazione dei contenuti universali dell’opera poetica di Dante, rimasti fin lì come soffocati dall’enfasi posta sull’etichetta di profeta della nazione. Si è assistito nel contempo alla diffusione delle sue opere su scala planetaria, sia nella cultura alta che in quella popolare.

Da emblema dell’identità italiana si è trasformato in icona pop del mondo globalizzato, raccontato nei fumetti e strapazzato dalla pubblicità. Salvo essere riscoperto come simbolo di coesione nazionale in alcuni momenti drammatici della storia italiana recente (dagli anni della sfida terroristica al cuore dello Stato alla crisi causata dall’epidemia di Covid-19), quando i suoi versi di poeta sommo sono stati capaci per l’ennesima volta di parlare al cuore della gente e di toccare le corde più sensibili dell’animo umano.

[…] Il volume racconta la lunga parabola del culto e dell’uso pubblico di Dante dalla fine del Settecento ai giorni nostri. Cerca di coglierne le dinamiche, gli aspetti distintivi, le linee di cesura.L’auspicio è di essere riuscito a offrire ai lettori una bussola per orientarsi in questa lunga e affascinante storia.

Fulvio Conti


Fulvio Conti è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Firenze, dove presiede la Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri”.

Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione, Roma, Carocci Editore, 2021

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