
Diciamolo. Fosse dipeso da Giuseppe Conte sarebbe stato meglio andare alle urne che dimettersi dalla carica di presidente del Consiglio, sia pure con la garanzia (pare) del reincarico immediato. La storia politica del Belpaese è prodiga di casi analoghi: ossia di premier reincaricati dal Quirinale, ma costretti a gettare la spugna per il veto di un gruppo o di un leader della coalizione da ri-allestire. Quasi tutti i capi di governo della Prima Repubblica (dc, laici e tecnici), dopo le dimissioni, hanno riottenuto dal presidente della Repubblica il via libera a formare una nuova squadra di ministri, ma in parecchi hanno dovuto arrendersi di fronte al fuoco di sbarramento di chi in quel momento era in grado di pianificare altre carriere e nuovi scenari politici.
Sì, perché la politica italiana è assai complicata e beffarda. Specie per chi si trova a Palazzo Chigi. È un guaio se sei impopolare. È un guaio se sei popolare. È un guaio se sei impopolare perché l’impopolarità può trascinare in basso, negli indici di gradimento, tutti i componenti della maggioranza di governo: e i danneggiati non te lo perdonano. È un guaio se sei popolare perché la tua popolarità può spaventare gli altri soci della coalizione, ciascuno dei quali ha un partito da mandare avanti (elettoralmente) e un’ambizione personale da coltivare e soddisfare.
Di solito, a prescindere dai risultati dell’esecutivo in carica, ogni dodici mesi (spesso anche prima) si manifesta, con la puntualità di una cambiale, la crisi di astinenza degli esclusi dal governo. Ovviamente le occasioni e i pretesti per mettere in difficoltà il presidente del Consiglio non mancano mai, Infatti. Così la giostra o il calvario possono ripartire con sistematica periodicità. Solo nella breve stagione del sistema maggioritario, i titolari di Palazzo Chigi hanno vissuto periodi di minore tribolazione, schivando la trappola dell’obsolecenza programmata che manda in tilt non solo i telefonini. Ma non sempre. Basti pensare alle imboscate patite da Romano Prodi ad opera di alleati che la sera, in Consiglio dei ministri, approvavano i decreti del governo, ma il mattino dopo scendevano in piazza per protestare contro i medesimi provvedimenti.
Servirebbe come il pane, per frenare gli appetiti degli esclusi dalla tavola governativa, l’istituto della «sfiducia costruttiva» (un governo decade solo se vi è un altro pronto a prenderne il posto), ma fino a quando resteranno in vigore le attuali regole, è bene non farsi illusioni sui governi di legislatura. Questi governi non sono per l’Italia che ciclicamente dovrà cambiare i suoi team ministeriali.
Di sicuro a Conte, che già avrebbe dovuto mettere in conto l’annuale richiesta di un tagliando, da parte di un alleato, come si fa per le autovetture da revisionare, non ha giovato la notizia sugli alti livelli di popolarità da lui raggiunti. Così come non ha giovato, sempre a Conte, la sua idea iniziale (poi rientrata) di una task-force di esperti per la gestione della montagna di aiuti europei contro la crisi economica provocata dalla pandemia. Il combinato disposto tra popolarità elevata e task force prenotata ha tolto il sonno a numerosi pezzi da novanta della coalizione, non solo a Matteo Renzi. Già la cospicua popolarità personale contiana destava preoccupazione nelle altre forze politiche, chiamate per giunta a quadrare i conti, con i propri parlamentari, dopo il sensibile taglio dei seggi di Camera e Senato. L’annuncio della task force, poi, poteva essere letto, come è avvenuto, come la conferma indiretta del pissipissibaobao dell’ultimo semestre: Conte sta organizzando il suo partito.
Il presidente del Consiglio è corso ai ripari rinunciando alla nomina della task force, ma ormai la strategia del bombardamento (e del logoramento) nei suoi confronti era scattata senza indugi. I succosi numeri sulla popolarità hanno infine chiuso il cerchio.
Assai scaltro si è rivelato il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che, con grande nonchalance, ha utilizzato Renzi contro Conte e Conte contro Renzi, col risultato di indebolirli entrambi. Morale: Conte sembra aver rinunciato al proposito di mettersi in proprio, che diventerebbe definitivo qualora, da oggi, l’ apertura ufficiale della crisi di governo sfociasse nella di lui uscita da Palazzo Chigi. Renzi dovrà accontentarsi di accodarsi a una nuova alleanza senza però disporre del potere di interdizione esercitato contro Conte.
Una cosa è certa. Comunque andrà a finire questa anomala crisi di governo, il partito degli esclusi dagli incarichi di governo pretenderà un sostanzioso risarcimento, cioè un vorticoso turn over tra le scrivanie ministeriali. Anche la scrivania della presidenza del Consiglio farà parte del pacchetto da rinnovare? Chissà. Quando si rassegnano ufficialmente le dimissioni, tutto può accadere.
Ecco perché Conte ha cercato di resistere a più non posso prospettando lo scenario del voto anticipato (esecrato da quasi tutti i parlamentari) in caso di rottura del quadro politico. Ma i «responsabili» a caccia di prebende sanno che i larghi varchi, per i loro obiettivi, si aprono solo quando la partita comincia da capo. E soltanto allora essi potranno uscire allo scoperto a beneficio di un nuovo governo.
Chi ci capisce è bravo. Ma, sotto sotto, è un film già visto.
GIUSEPPE DE TOMASO
[ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO ]